Il coronavirus, la paura del contagio e il “lavoro psicologico inconscio”. L’incontro con E.

Il pericolo del Coronavirus ha stravolto la nostra vita e ha minato le nostre sicurezze in modo così repentino da creare un senso di minaccia e di paura quotidiana. All’improvviso siamo stati costretti a doverci confrontare con qualcosa di grave, subdolo e invisibile, che ha cambiato la nostra vita. L’idea della malattia e della morte, il timore di essere veicolo di contagio per le persone più vicine a noi,  alimenta le nostre paura più profonde. 

In un attimo si sono interrotte le nostre relazioni sociali, il nostro lavoro, nel giro di poche settimane hanno chiuso le scuole. Le basi su cui è fondata la nostra società, ma anche le nostre certezze sono crollate:  libertà di spostamento, diritto alla salute, all’istruzione, alle relazioni sociali e affettive, tutto ciò si è volatilizzato come un castello di carta creando un senso di angoscia e di sgomento difficile da elaborare.

E’ naturale che ogni persona reagisca in modo diverso a questa minaccia che investe tutti, ma le persone più fragili possono incanalare le loro paure sviluppando una sorta di “psicosi” da contagio.

L’incontro con E.

E questo è proprio quello che è successo a E. che mi chiama per un primo appuntamento che vorrebbe fare via Skype o whatsup, perchè lei ormai non esce più di casa da molti giorni, è così terrorizzata dalla paura di contrarre il virus da non andare neanche a fare la spesa e talvolta da impedire anche al marito di assentarsi da casa.

Mi racconta di come la sua ansia abbia iniziato a manifestarsi da un paio di anni, in relazione soprattutto ad interventi medici, ma poi, quando è esplosa questa pandemia, la sua angoscia è aumentata tantissimo.

Le do l’appuntamento circa una settimana dopo la sua telefonata, ma due giorni dopo mi richiama, dice che sta molto male e vuol sapere se possiamo vederci prima rispetto al giorno concordato. Garbatamente le dico che dobbiamo mantenere il giorno prestabilito.

Nel primo incontro racconta di esami medici fatti, di un operazione invasiva recente e della sua paura di avere qualche cosa di brutto. I suoi racconti relativi ad interventi medici in sala operatoria che le hanno causato una grande angoscia sembrano parlare della sua paura di interventi”invasivi”pericolosi. E’ probabile che questi timori abbiano a che fare con questo nostro primo incontro. Viene anche da pensare che quando mi ha chiamato per sapere se la avessi vista in anticipo non ha voluto saggiare quanto potessi essere disponibile per lei?

Mi racconta con un misto di rabbia e delusione della sua famiglia di origine, il padre che si è sempre disinteressato alla famiglia, i fratelli che abitano in altre città, ma che non la cercano mai, anche rispetto agli amici racconta di essere stata tante volte delusa da loro. A questo si aggiunge la pedita della madre, che ha lasciato un grande senso di vuoto.

Va d’accordo un po di più con una cugina, ma anche nei suoi confronti E. esprime sentimenti di delusione.

Una delle sue paure è relativa a sua figlia, che possa rimanere da sola, senza una madre, proprio com è accaduto a lei. 

Come interpretare le cose che E mi dice in questo primo incontro?

 I fatti raccontati da E. non vanno letti solo come espressione di ciò che è parte del suo passato e della sua storia, ma sopratutto in funzione di quello che lei, nel qui ed ora, di quello che decide di comunicare, a partire dalle sue fantasie e dai suoi pensieri in merito al nostro primo incontro.

Ecco come Collovà (2007) esprime questo pensiero: -”Ascolto la storia che mi porta il paziente come già pervasa dalle prime fantasie su di me, sull’analisi, e cerco di trarne informazioni sul grado di organizzazione o disorganizzazione che egli ha maturato da “solo”, includendo tutte le relazioni interne  (mondo interno) ed esterne che è stato in grado o meno di utlizzare per questa costruzione, le letture che è stato in grado di dare dei fatti emotivi della propria vita.”

A proposito delle sue relazioni affettive, lei esprime il suo sentimento di rabbia e delusione perché si è sentita troppe volte delusa dalle persone alle quali ha voluto bene. Possiamo quindi ben comprendere come E. abbia paura di restare delusa anche ora, che chiede aiuto a me. Infatti poco dopo emerge come le pesi dovere chiedere aiuto a qualcuno, lei preferirebbe risolvere tutto da sola.

L’eccessiva paura di E. per il contagio da coronavirus sembra essere espressione della sua paura delle relazioni affettive, delle “relazioni di vicinanza” che per lei sono causa di sofferenza.  Quale mezzo migliore poteva trovare E. per esprimere questa sua paura se non quella di un virus che si trasmette da persone a persona, con le relazioni e il contatto ravvicinato?

In effetti dopo il nostro primo colloquio, E. contatta uno psichiatra “che fa anche lo psicologo” per intraprendere una terapia farmacologica. Credo che questa scelta sia conseguenza dell’essersi spaventata di questo nostro incontro, al punto da avere bisogno dei farmaci, e nello stesso tempo rappresenti il suo tentativo di avere un altro punto di riferimento oltre a quello rappresentato dal nostro lavoro, così da non sentirsi troppo “esposta e dipendente” nella relazione con me.


La “consapevolezza” del sogno

Vogliamo però concentraci soprattutto su un sogno che lei ha fatto circa due mesi dopo l’inizio del nostro lavoro (proseguito con due sedute alla settimana) in una fase in cui stava decisamente meglio.

Racconta di essersi sentita di potere uscire e di essere andata a prendere dei fiori da portare sulla tomba della nonna. Ha anche parlato con lo psichiatra ieri, che le sta diminuendo sempre di più il farmaco, al punto che verso la fine di maggio dovrebbe eliminarlo completamente.

Poi racconta del sogno e dice di averlo fatto esattamente il giorno dopo la nostra seduta, e un paio di giorni prima di incontrare lo psichiatra.

Sogno di prendere gli psicofarmaci …i soliti, ma mi sbaglio e inavvertitamente assumo una boccetta di ammoniaca. Mi spavento molto ovviamente, …ha paura di essermi avvelenata, c’è anche mia sorella…. lei cerca di tranquillizzarmi, penso che si debba chiamare il 118. Poi vado nel lavandino del bagno e vomito dei ceci grossi così … tutti interi… Poi sono ancora angosciata, penso che si debba fare una lavanda gastrica, mia sorella mi dice lasciare stare, tanto ho già vomitato.”

Cerco di capire insieme alla paziente che cosa possa significare il sogno e cosa le facciano venire in mente gli elementi presenti nel sogno

Mi spiega che in generale lei è molto refrattaria gli psicofarmaci, ha una parente che li assume al quale è stata diagnosticata una schizofrenia, e ha paura di potere diventare come lei.

L’ammoniaca invece ha che fare con il coronavirus, perchè spiega, lei lo usa molto per disinfettare in questo periodo di epidemia.

“E i ceci?” A lei proprio non piacciono interi, mi dice, semmai quando li mangia, deve cucinarli in modo che diventino una salsa.

Che cosa sembra dirci il sogno? Lei vuole sconfiggere il problema del coronavirus, non lo fa più con i farmaci, allora cerca di farlo con l’ammoniaca, ma dentro si rende conto che il suo problema vero non è “sconfiggere il coronavirus”, ma quelle cose che non sono state mai elaborate, “cucinate”, che sono rimaste dentro e che alla fine le rigetta, proprio come ha fatto nel sogno con i ceci.

Riteniamo che il sogno parli anche del nostro lavoro, lei è spaventata di dovere fare affidamento sull’altra persona per elaborare/cucinare quelle cose che non ha superato, soprattutto ora che rinuncia alla sponda dello psichiatra, per concentrarsi sui nostri colloqui.

Quindi possiamo dire che il sogno della paziente è espressione di quel “lavoro psicologico inconscio” di elaborazione della sua esperienza emotiva vissuta. Il sogno la sta mettendo in contatto con qualcosa che la parte cosciente ancora non ha visto. Il lavoro psicologico che a noi interessa e che svolgiamo insieme con la psicoterapia è proprio questo: quello di creare un contatto tra la sua esperienza emotiva e la sua parte conscia e inconscia.

Grazie al momento di comprensione e di vicinanza che siamo riusciti a creare e che si è concretizzato nella lettura del sogno, E. inizia a parlare in modo sentito, con emozione, di come ha sofferto per suo padre che non c’è mai stato, che ancora adesso non la chiama, malgrado lei l’abbia cercato di avvicinarlo, “lui non c’è e non ci sarà mai”, poi parla della madre morta che era troppo presa a badare a tanti figli e che poi si è ammalata e che insomma non c’è mai stata abbastanza, ma non per colpa sua in questo caso.  Prosegue dicendo che è dura per lei dover fare i conti con la consapevolezza che certe cose che sono mancate nel passato, non potranno mai più tornare.

Alla fine della seduta mi dice di “sentirsi piena”, in “modo positivo”, poi aggiunge.

Con queste parole la paziente ci ha restituito la sua sensazione che se anche se certe cose del passato non possono cambiare, quello che abbiamo fatto insieme abbia “curato” e in fondo riempito quel vuoto interiore che lei si porta dentro da tempo.

Dr.Daniele Molho, psicologo, psicoterapia: Corbetta Magenta

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